Alcune risposte sugli attentati a Bruxelles

Di Martina Costa – Trascorse ormai due settimane, risulta più facile trarre delle conclusioni in merito agli attentati di Bruxelles, le loro origini e le relative conseguenze.

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Luoghi degli attentati (credit: AFP)

A quattro giorni dall’arresto di Salah Abdeslam, ricercato da circa quattro mesi, il 22 marzo, tre esplosioni colpiscono il Belgio: due all’aeroporto di Zaventem ed una alla fermata della metro di Maelbeek. La scelta dei posti, capiremo, non essere del tutto casuale. I luoghi colpiti sono fortemente simbolici: chi mai potrebbe aspettarsi di assistere ad un attacco terroristico in posti in cui, si suppone, i controlli siano al massimo? Ma non solo, la stazione della metropolitana si trova proprio a poche centinaia di metri dalla sede della Commissione europea; è probabile dunque che l’attacco intendeva colpire la sicurezza e la tranquillità mediatica di tutta l’Europa, utilizzando il Belgio come luogo più rappresentativo. Quello che è successo nella capitale europea è un attacco che lascia tanti dubbi ed un forte amaro in bocca: potevano forse essere prevenuti? di chi sarà la colpa? Prima di avventarci in soluzioni estreme, è il caso di interrogarci sulle cause che hanno portato le vicende di Bruxelles ad essere sulla bocca di tutti… anche di troppi forse!

Primo: per la posizione geografica del Belgio a livello comunitario, tra Francia, Germania ed Inghilterra, risulta evidente la facilità di muoversi all’interno dello spazio Schengen, dove è consentita la libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea. Ma le questioni geografiche si spostano anche all’interno del Belgio; il territorio infatti risulta essere diviso in due comunità: quella fiamminga e quella dei valloni, con due lingue e due territori di insediamento diversi. In un simile contesto di totale divisione, si è dovuta inserire la comunità musulmana, che a partire dagli anni del dopoguerra è giunta in Belgio con tanti buoni propositi, ma che non ha trovato il terreno fertile per una reale e completa integrazione. Afferma infatti Angela Manganaro: “Il Belgio è un paese impegnato a costruire la convivenza fra valloni e fiamminghi che non ha visto e curato altre forme di separazione”.

Le forze di polizia e le comunità locali, assorbite nella gestione delle tensioni interne, si sono curate poco o niente delle nuove etnie che andavano insediandosi. Esse sono così cresciute nel tempo fino a formare dei veri e proprio quartieri-ghetto (si veda il distretto di Molenbeek e di Vilvoorde), in cui la comunità musulmana arriva a toccare il 25-30% della popolazione. In quasi tutti questi quartieri la situazione socio-economica non è delle migliori se si considerano i problemi di povertà, disoccupazione e tossicodipendenza, che in questo distretto sono particolarmente diffusi. In un simile contesto si rischia facilmente di sfociare in tensioni sociali. E come dice il Professor Bauman, “dal punto di vista dei terroristi, quanto peggiori sono le condizioni dei giovani musulmani nelle nostre società, tanto più forti sono le possibilità di reclutamento”.

Secondo: l’amministrazione del Belgio ha parecchie falle che comportano un rallentamento nelle attività investigative e di gestione del fondamentalismo locale. Il suo più grande problema è la frammentarietà: per quanto piccolo, il Belgio conta sei diversi Governi. Solo a Bruxelles vi sono 19 distretti ognuno con il suo sindaco e sei dipartimenti di polizia, i quali comunicano tra di loro con una certa riluttanza. In un tale e caotico sistema è facile supporre che i procedimenti siano lenti, difficili da gestire e non ottimamente coordinati.

Terzo: incompetenza o complottismo? Il parlamentare belga Laurent Louis del partito “Debout les belges” si è lanciato in un j’accuse contro il Governo belga ed i servizi segreti del Paese. Cito qui uno stralcio del suo scritto, lasciando a Voi lettori le conclusioni: “O i nostri servizi di sicurezza sono incompetenti ed incapaci di proteggere i luoghi sensibili come l’aeroporto nazionale o la rete di metropolitane di Bruxelles, o sono gli stessi servizi all’origine di questi attentati”.

Quarto: altra causa di notevole importanza è la mancanza di comunicazione tra le intelligence europee, il che lascia aperto il dibattito sull’efficacia della Politica di difesa e sicurezza comune. Evidentemente gli interessi dei vari paesi europei, non coincidendo tra loro, portano alla decisione di  non avere un sistema di intelligence europeo comune.

Quinto: il sentimento di rivalsa e ribellione è uno di quei fattori meno considerati quando si cerca di capire il perché di certi attentati. Proviamo dunque a fare un po’ di chiarezza.

Il mito della missione umanitaria e dell’esportazione della democrazia, tante volte messo in atto dai paesi occidentali, avrà di certo piantato un seme in tutti quei territori che da decenni vengono bombardati (si veda la Libia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria). È difficile credere, per un uomo che vede morire il figlio a causa di una bomba arrivata dall’alto dei cieli, che quella sia una missione umanitaria. E allora si domanda Marco Alloni, “non è del tutto consequenziale odiare chi ti massacra indiscriminatamente?”.

La diversa considerazione mediatica e solidarietà date alle vittime non occidentali, non ha lasciato indifferente neanche il web, che nell’ultimo periodo si è chiesto dove fossero gli hashtag per il Pakistan o per Ankara. Questo comporta nei diversi gruppi sociali una consapevolezza sulla diversa importanza che diamo ai morti delle varie nazionalità. Come se delle vittime potessero valere meno in relazione alla loro origine. Per il mondo social una vittima è occidentale o semplicemente non è!

Infine va considerata la  stigmatizzazione che, troppe volte e troppo facilmente, affibbiamo ai gruppi sociali di origine araba o di fede musulmana. Tutto questo contribuisce alla formazione di un sentimento comune e condiviso, quello dell’isalmofobia. Esso indica l’avversione, la paura e i pregiudizi contro l’islam e di conseguenze la discriminazione di persone di confessione musulmana e di origine araba. Assembliamo così una vastità di individui che, condividendo lo stesso credo con fanatici e radicali, si sentono in dovere di giustificarsi da questi attentati scrivendo Not in my name. Con queste considerazioni non si vuole di certo giustificare gli attentati, sempre e comunque rudi, violenti qualunque sia la matrice o la motivazione. Si vuole semplicemente mettere in luce tutti quei fattori  da cui può scaturire una vendetta.

Sesto: causa delle cause è senz’altro l’organizzazione islamica radicale Sharia4Belgium. Fondata nel 2010 in Belgio e resa possibile grazie al terreno fertile che si era creato a Bruxelles: malcontento giovanile, disoccupazione, alti livelli di disagi sociali, frustrazione, scarsa integrazione con la comunità belga ed alienazione dei giovani che vivono in società straniere. L’intento asserito era quello di diffondere l’ideologia islamica contestando le derive discriminatorie delle politiche nazionali. Ma passati due anni emerse la finalità effettiva: convertire la popolazione belga alla fede musulmana ed instaurare la Sharia in Belgio, sostenendo i gruppi più radicali dentro e fuori i confini nazionali. È proprio in quegli anni che aumenta l’attività di reclutamento di jihadisti per la Siria.

Ad oggi il Belgio è il paese con il tasso più alto di tutta l’Europa, circa 450 sono partiti alla volta di Siria ed Iraq per unirsi all’Isis. Nel 2012 l’organizzazione venne ritenuta terroristica e Fouad Belkacem, leader di Sharia4Belgium, venne arrestato e condannato con l’accusa di incitamento  all’odio contro la comunità non musulmana. Queste le sue parole in un’intervista: “Gli occidentali si preparino ad un’ondata di sharia ed islam. Noi crediamo che la sharia avrà il dominio e verrà adottata in tutto il mondo. Non c’è alcuna differenza tra l’islam e la sharia. La democrazia è l’opposto della sharia e dell’islam. Un musulmano che dice di essere contro la sharia non è musulmano. Questa non è una cosa possibile”.

Settimo: le scarse politiche di integrazione rappresentano di certo un’altra causa, ma tra le tante questa è quella che più di tutte mi rammarica. Come sappiamo questi attentatori e, come loro, anche quelli delle stragi di Parigi, erano di origine europea almeno da quattro generazioni. Un lasso di tempo molto lungo, ma che evidentemente non risulta essere stato sufficiente affinché un extraeuropeo potesse ritenersi cittadino belga o francese. Questo è il chiaro esempio di quanto le politiche sinora adottate siano state improduttive. Non basta aprire le porte d’Europa ai migranti, profughi e richiedenti asilo. Occorre stabilire politiche d’integrazione effettive nella comunità e tra le società.

Ed è qui che vedo il fallimento mio e di tutta un’intera società: se un nostro concittadino decide in extrema ratio di bombardare casa nostra, questo è il segno che abbiamo fallito tutti. Abbiamo fallito nel tentativo di farlo sentire parte di noi, parte di una società che ha bisogno delle differenze culturali, religiose e sociali per crescere ed evolversi.

Sì, è vero, occorrono delle misure di sicurezza che possano affrontare una situazione tanto disastrosa che per essere effettivamente risolta dovrebbe essere considerata a monte. Occorre intervenire nella risoluzione dei conflitti armati che continuano a causare valanghe di sfollati, stabilire una maggior collaborazione tra le forze di intelligence, combattere le discriminazioni, la povertà ed il razzismo, ma più di tutto occorrono politiche di integrazione. Perché fino a quando un cittadino belga si sentirà ospite nella sua terra ogni espediente securitario è puro ornamento e tutto questo continuerà a succedere, in maniera sempre più imprevedibile e raccapricciante.