Jesse Owens, la storia di un atleta diventata leggenda

Il 31 Marzo 2016 arrivava nelle sale cinematografiche italiane il film Race – Il colore della vittoria, diretto da Stephen Hopkins, che ripercorre le gesta di uno dei più grandi atleti di tutti i tempi, quel Jesse Owens passato agli annali per aver vinto quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi del 1936, organizzate nella Berlino nazista.

Una storia quella di Owens che è diventata col tempo simbolo della lotta al razzismo, per la mancata premiazione da parte di Hitler, irritato per la vittoria di un atleta di colore, proprio nella manifestazione organizzata a puntino per l’esaltazione della razza ariana. Grande era stato l’investimento del regime nazista nell’evento, tanto dal punto di vista delle strutture quanto da quello della comunicazione (saranno le prime Olimpiadi trasmesse in televisione), passando perfino per la maniacale preparazione degli atleti stessi. Quindi appariva quantomeno prevedibile che Adolf Hitler potesse, come in effetti lo era, esser stizzito per ogni sconfitta dei suoi atleti, specie a vantaggio di uno di colore, date anche le vigenti leggi razziali.

Eppure, l’episodio è giunto fino a noi carico di inesattezze e con un valore ai limiti della leggenda che è stato smantellato dallo stesso Jesse Owens, le cui rivelazioni, però, sono rimaste per anni inascoltate per comodità storica o forse, probabilmente, più per opportunità politica. Purtroppo ci sono bugie a cui difficilmente sapremo rinunciare. E quella di Owens, senza dubbio, è una di quelle.

Per diverso tempo, anche subito dopo esser tornato a casa, il plurimedagliato di Berlino aveva smentito tanto il fatto che la Germania nazista gli avesse riservato un trattamento sfavorevole, quanto soprattutto che Adolf Hitler avesse volutamente ignorato la sua vittoria.

Le fonti vogliono che, già quando Jesse Owens vinceva i 100 metri, il 3 Agosto del 1936, il Fuhrer avesse già preso la decisione di non stringere la mano a nessun atleta, su indicazione espressa del Comitato Olimpico. Da qui l’aneddoto della mancata stretta di mano all’atleta americano, il quale tra l’altro ha sempre ricordato nelle varie interviste come subito dopo la vittoria e prima della premiazione Hitler stesso lo avesse salutato con la mano direttamente dalla tribuna.

jesse owens hitler

Fatto confermato dalla figlia Marlene, sulla cui testimonianza verte l’intero film, che avrà, appunto, il compito di evidenziare e correggere tutte queste inesattezze sulla vita del padre. Facendo emergere al contempo scomode verità, ancora oggi da molti ridimensionate a favore di altre. Su tutte quella per cui ad ignorare realmente Jesse Owens non fosse stato il Fuhrer (il quale si racconta avesse più tardi inviato anche un ritratto all’atleta statunitense) quanto piuttosto gli Stati Uniti d’America e il suo presidente Franklin Delano Roosevelt.

«In realtà, mio padre non si è mai sentito snobbato da Hitler. In retrospettiva, mio padre fu profondamente ferito dal fatto che Franklin Delano Roosevelt, il presidente americano dell’epoca, non l’avesse ricevuto alla Casa Bianca», ha raccontato la figlia agli sceneggiatori del film.

La segregazione razziale, presente (e lo sarà per tanto tempo ancora) negli States, e l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali spinsero il leader democratico a cancellare l’incontro programmato con Jesse Owens, soprattutto per timore della reazione che avrebbero avuto gli Stati del SudScelta senza dubbio opinabile, data la straordinarietà dell’evento e del risultato ottenuto dall’atleta afroamericano, in casa dell’allora principale nemico europeo. Ma si sa, tanto in Germania, seppur per connotazioni differenti, quanto negli States, la questione razziale ha rappresentato e rappresenta tutt’oggi, un tema delicato.

Quel che restava era un silenzio assordante, che avrebbe circondato Jesse Owens ancora per tanto tempo. Tanti potrebbero essere gli episodi da riportare, del tutto simili a quelli avvenuti nel passato e a tutti noi noti, quando ci siamo trovati di fronte a casi di razzismo nei confronti degli afroamericani. Tra questi, certamente rappresentativo era quello avvenuto all’albergo Waldorf Astoria di New York, durante un evento a cui Jesse Owens venne invitato e in cui fu costretto ad entrare dall’ingresso posteriore e ad utilizzare l’ascensore di servizio, e non quello riservato agli ospiti bianchi.

«Dopo tutte queste storie su Hitler e sul suo affronto, quando sono tornato nel mio paese non potevo ancora sedermi nella parte anteriore degli autobus ed ero costretto a salire dalla parte posteriore. Non potevo vivere dove volevo. Allora qual è la differenza?», spiegava in un’intervista.

La vittoria alle Olimpiadi non gli aveva neanche procurato chissà quanti benefici economici, costringendolo all’inizio ad adoperarsi in diversi lavori per poter vivere. Da quelli più umili, benzinaio, alle gare contro cavalli, cani e addirittura motociclette durante eventi a pagamento. Si sarebbe rifatto, economicamente parlando, solo in un secondo momento, con la carriera da motivatore per aziende commerciali e preparatore atletico.

Dimenticata da Roosevelt e dal suo successore Harry Truman, la storia sportiva di Jesse Owens otterrà il primo e vero riconoscimento solo quarant’anni più tardi, sotto la presidenza di Gerald Ford, nel 1976, con l’assegnazione della Medaglia per la Libertà. Dovettero passare anni per giungere ad un gesto riparatore, ma che non avrebbe cancellato i silenzi passati.

Così, il film Race sembra fungere da pietra tombale della verità emersa dalle Olimpiadi di Berlino del 1936, quasi a voler, una volta per tutte, dare definitiva sostanza ai fatti raccontati dal punto di vista del diretto interessato. A prescindere quindi da qualsiasi strumentalizzazione mancata o avvenuta successivamente e da qualsiasi silenzio americano, figlio di una contraddizione interna, che ha impedito per anni la celebrazione doverosa di quella che era, e rimane, semplicemente una delle gesta sportive più grandi della storia dell’atletica e dello sport.


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