L’Europa in impasse: l’emergenza migratoria ed il futuro di Schengen

Di Martina Luminoso – Sono trascorsi ventidue anni dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, e lo stato in cui versa l’Unione europea non può definirsi dei migliori. Tanti, infatti, sono i nodi da sciogliere. La minaccia “Brexit”, la nuova (se così possiamo definirla) recessione greca, la sempre più drammatica emergenza migratoria, sono solo alcuni dei gravi problemi di fronte ai quali si sta trovando l’Europa.

I recentissimi attacchi terroristici a Bruxelles, cuore istituzionale dell’Unione, hanno poi inasprito la situazione, rimettendo violentemente in primo piano il problema della sicurezza interna, e potrebbero incidere ulteriormente sul futuro di Schengen.

Quest’ultimo rappresenta una delle conquiste più concrete dell’Unione europea. Il cosiddetto spazio Schengen è quell’area entro la quale sono stati aboliti i controlli alle frontiere interne (mentre restano obbligatori quelli alle frontiere esterne). Esso è stato istituito e regolato da un accordo del 1985 e da una convenzione del 1990, che sono stati poi integrati nel diritto comunitario con il Trattato di Amsterdam. Attualmente ne fanno parte 26 paesi, 22 dei quali sono membri dell’UE.

Sancendo la libera circolazione delle persone, lo spazio Schengen costituisce uno dei pilastri fondamentali e dei principi fondanti dell’Unione europea. Nonostante ciò, da oltre sei mesi l’area Schengen, simbolo dell’Europa unita, è messa in discussione da parte di diversi paesi.

I controlli alle frontiere sono stati infatti reintrodotti, tra i tanti, ai confini tra Germania, Francia, Austria, Ungheria, Danimarca, Svezia. L’Europa senza frontiere sembra lasciare il posto all’Europa dei muri e del filo spinato, come dimostrano le barriere innalzate dai paesi dell’est, sui quali si riversa l’enorme flusso di profughi che ogni giorno cerca di raggiungere l’Europa attraverso la cosiddetta rotta balcanica.

La Commissione europea ha evidenziato che non si tratta di un’abolizione di Schengen, che sembra voler essere salvato a tutti i costi, almeno formalmente. Il vertice di Amsterdam del gennaio scorso ha infatti stabilito una “sospensione temporanea” dell’accordo, la quale dà la possibilità di effettuare controlli alle frontiere interne dei paesi dell’area interessata. D’altronde l’abolizione di Schengen appare improbabile, richiedendo una complessa procedura e, non meno importante, l’approvazione di tutti gli stati membri.

La scelta è dunque ricaduta sul blocco dell’accordo in applicazione del Codice di Schengen, che prevede la possibilità di ripristino delle frontiere interne come meccanismo di emergenza, quindi in casi eccezionali e temporanei, per far fronte ad una minaccia grave per l’ordine pubblico e la sicurezza interna, ovvero a gravi lacune relative al controllo delle frontiere esterne.

Inoltre, un’eventuale abolizione definitiva dello spazio di libera circolazione non sarebbe indolore, ma porterebbe con sé importanti conseguenze, in primis di tipo economico (si pensi ai costi di reintroduzione e mantenimento di frontiere e dogane, alle implicazioni su trasporti e commercio, e così via). E, soprattutto, avrebbe un effetto disgregante per l’Unione europea. Infine si pensi all’effetto sui paesi di confine quali Italia e Grecia, dove avvengono la quasi totalità degli sbarchi.

Emerge chiaramente la complessità dell’emergenza migratoria, che inevitabilmente si lega alla minaccia terroristica, alimentando xenofobia e populismo politico. Un segnale molto forte in tal senso è stato dato dall’opinione pubblica tedesca, in occasione delle ultime elezioni regionali in Germania: i tedeschi hanno chiaramente bocciato la politica delle porte aperte promossa della loro leader.

La Merkel lo scorso settembre aveva infatti sostenuto una politica di accoglienza nei confronti dei profughi siriani, rifiutando di stabilire un tetto massimo agli arrivi, ma solo due mesi dopo tale coraggiosa scelta era già stata messa in discussione, per poi essere definitivamente respinta dalla maggior parte dei cittadini tedeschi che si sono recati alle urne. La sconfitta subita dalla Merkel pesa moltissimo a livello europeo ed ancora più emblematica è la netta crescita del partito di destra AfDAlternativa per la Germania” che si oppone all’apertura delle frontiere, all’euro ed al salvataggio dei paesi indebitati. Tendenze di questo tipo gettano ombre sul futuro dell’Unione europea.

La strategia dell’Europa-fortezza non sta mostrando risultati efficaci, e l’ultimo provvedimento adottato, vale a dire l’accordo tra Bruxelles ed Ankara, che ha come obiettivo la chiusura della rotta balcanica con il blocco degli ingressi dalla Grecia, appare tutt’altro che risolutivo.

Alla base vi è la mancanza di azione comune: la redistribuzione dei migranti fra i vari paesi, il rimpatrio di coloro i quali non hanno diritto di asilo, i cosiddetti migranti economici, ed il rafforzamento delle frontiere esterne risulteranno sempre inefficaci in assenza di una politica comune e condivisa sull’immigrazione, sul diritto d’asilo e sul ricongiungimento familiare. Finché i paesi membri agiranno sulla base di singoli interessi nazionali, non sarà possibile parlare di politica migratoria europea.


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