Yemen: «un inferno sulla terra» che il mondo sembra voler dimenticare

Di Clara Geraci – Sono passati poco più di tre anni da quando, il 25 marzo 2015, i primi raid aerei dell’operazione “Decisive Storm” hanno dato il via al disastro dello Yemen. Tre anni di guerra senza quartiere e senza regole.

Tutti contro tutti: autorità ufficiali e autorità de facto a contendersi il controllo del Paese; grandi potenze regionali, attirate dalla posizione strategica del Paese tra il Mar Rosso e il Mar Arabico, quali registi del conflitto; i mercanti d’armi occidentali impegnati ad arricchirsi equipaggiando sistematicamente e irresponsabilmente, in beffa al Trattato globale sul traffico di armi, i numerosi gruppi armati sul campo.  

YEMEN-CONFLICTIn mezzo, un’interminabile conta di morti. Un’intera popolazione in trappola, costantemente sulla linea di fuoco, senza cibo, né acqua potabile, né accesso sicuro all’assistenza medica.

Da parte di entrambi gli schieramenti, il più deliberato spregio dei diritti umani fondamentali e del diritto internazionale umanitario, con un rapporto ufficiale delle Nazioni Unite che riferisce di azioni al limite dei crimini di guerra: «Esistono poche prove di qualsiasi tentativo da parte delle parti in conflitto di ridurre al minimo le vittime civili», secondo Kamel Jendoubi, presidente del Gruppo di esperti ONU per lo Yemen. È una guerra disumana, se mai di umanità si possa parlare riferendosi a una guerra.

YemenHomepage02I civili sono nel mirino. Le infrastrutture socio-assistenziali essenziali, i sistemi di approvvigionamento idrico e i progetti di aiuto umanitario strategicamente bersagliati. Le importazioni di beni di prima necessità e forniture umanitarie bloccate. In quello che, prima di diventare il terreno di gioco nella contesa per procura tra Arabia Saudita e Iran, era già il Paese più povero della penisola arabica, è stata provocata la più grave crisi economica di tutti i tempi, di cui, come sempre, a far le spese sono innanzitutto donne e bambini.

Lo Yemen è un Paese sull’orlo di una catastrofe umanitaria senza precedenti: 14 milioni di persone, riferisce Oxfam, moriranno di fame nell’immediato futuro senza un cessate il fuoco tempestivo e duraturo. Eppure, fino al 26 ottobre scorso la gran parte del mondo sembrava non essersene accorta.  

Un popolo che a malapena sopravvive, in quella che il Segretario generale ONU, Antonio Guterres, definisce «la peggiore crisi umanitaria del pianeta», di cui nessuno, o quasi, raccontava. Almeno 17mila vittime civili; 3 milioni di profughi interni; 22 milioni di persone la cui sopravvivenza dipende dall’assistenza umanitaria salva-vita e 16 milioni prive di accesso sicuro all’acqua potabile e a un’assistenza sanitaria adeguata; 2 milioni di bambini malnutriti e 450mila considerati gravemente malati.

Una media di 30mila bambini sotto i cinque anni, morti ogni anno per malattie connesse alla malnutrizione. Più di 1milione di casi di colera. Un nuovo bambino malato al minuto, uno morto ogni dieci. Un elenco interminabile. L’altra faccia, quella più atroce, di una guerra da sempre nell’ombra.  

Poi, il 26 ottobre, una bimba morente, immortalata dal premio Pulitzer Tyler Hicks per il New York Times, ha urlato al mondo la disperazione silenziosa del suo popolo.  Era Amal Houssein: 7 anni, lo sguardo perso nel nulla, un cumulo di ossa e le mosche sulle mani.

133522001-43defa17-e2a8-4da9-919a-42d2a1877434Amal era. Perché, pochi giorni dopo essere inconsapevolmente diventata il simbolo di quel conflitto dal costo umano incalcolabile ma fino ad allora mai finito in cima all’agenda globale, Amal è morta. Di fame. In una tenda del campo profughi di Aslam.

Lì, insieme alla madre, aveva trovato rifugio dalle bombe saudite – magari made in Italy, di quelle prodotte in Sardegna dalla RWM Italia Spa e trasferite con il consenso del governo italiano – che all’inizio del conflitto avevano distrutto la sua casa, nel nord del Paese, durante uno dei raid aerei indiscriminati, ormai all’ordine del giorno, in quella guerra che va avanti da troppo tempo, disprezzando la vita dei civili nell’indifferenza globale.

Per la madre, una delle milioni di madri yemenite costrette ogni giorno a guardare inermi i loro figli consumarsi per la fame, il colera o le bombe, poco importa, era stato impossibile trasferirla all’ospedale di Medici Senza Frontiere ad Abs, 25 chilometri dal campo profughi, per via del costo proibitivo del carburante, raddoppiato nel corso dell’ultimo anno a fronte di un popolo nella miseria assoluta, sempre più vicino a essere dichiarato dalle Nazioni Unite il terzo Paese al mondo attualmente in carestia, al pari di Somalia e Sud Sudan.

Il reparto della fame di quel ricovero, fatiscente ma, come pochi altri nella regione, ancora in piedi, che è la clinica di Aslam, in cui era stata fotografata con ancora un filo di vita negli occhi, non poteva più far nulla per lei, e il suo letto serviva per qualcun altro che, come lei, moriva di fame, ma che, forse, più di lei aveva la speranza, quasi in beffa al suo nome, di sopravvivere. Amal ha incarnato il volto di un popolo che si sta spegnendo. Il terribile caso perfetto.

Yemen-strage-1140x641Lo Yemen sta morendo, di fame e di bombe. E Amal nel raccontarlo al mondo, lo ha sconvolto, smosso e commosso. Almeno per qualche giorno. Poi di nuovo il silenzio: le stragi continuano; i blandi tentativi internazionali di avviare i negoziati di pace falliscono; le chiamate di cessate il fuoco intorno alle strutture coinvolte nella distribuzione di cibo sono ignorate da entrambe le parti; gli accertamenti delle responsabilità per i crimini commessi, si fanno sempre più lontani.

E intanto milioni di Amal continuano a morire: dall’inizio di novembre a oggi 600mila yemeniti sono ostaggio del violento assedio di Al- Hodeida, città essenziale dal punto di vista logistico per l’ingresso degli aiuti umanitari nel Paese: «Se il porto venisse distrutto» – ha dichiarato il Segretario generale ONU – «ciò potrebbe creare una situazione assolutamente catastrofica».

L’ipocrita commozione generale di fronte agli occhi grandi e ormai vuoti di Amal sembra già aver lasciato il posto all’oblio. La speranza, questo significa Amal, che quello sdegno risvegliasse l’opinione pubblica sullo scempio che si sta consumando in quella terra di nessuno che è lo Yemen, sembra essersi spenta con lei. Perché non c’è nessun vantaggio nel turbare le nostre coscienze ricordandoci che lo Yemen esiste e che «è la prova vivente di un’equazione apocalittica: guerre e fame si tengono per mano», come sottolinea Jose Graziano da Silva, direttore FAO.

5b0a6dd6-5302-492f-810f-cf7bbc980599Non c’è nessun vantaggio nel ricordarci che in Yemen si sta, senza scrupolo alcuno, disprezzando il comune senso di umanità, attentando quotidianamente e consapevolmente alla vita di milioni di civili allo stremo. E che accade tutto sotto gli occhi indifferenti, a volte addirittura conniventi, dell’occidente: «Non siamo più sconvolti dalle atrocità di questo tipo. Ma siamo sbalorditi dal fatto che siano autorizzate a proseguire con la piena consapevolezza delle potenze occidentali che finanziano e alimentano questa guerra», ripete Lise Grande, coordinatrice umanitaria ONU per la crisi in Yemen.

Non c’è nessun vantaggio nel raccontare che quella dello Yemen non è solo una guerra, ma «un inferno sulla terra» – per riprendere le parole di Geert Cappalaere, direttore UNICEF per il Medio Est e il Nord Africa – di cui siamo complici con la nostra indifferenza.

L’Alto commissario ONU per i diritti dell’uomo, Michelle Bachelet, ha chiesto «a chi fornisce le armi, a tutte le parti in conflitto, oltre a chi ha influenza o potere necessario, di far cessare la fame e dare un po’ di respiro al popolo yemenita», le cui sofferenze sono un «affronto al nostro senso di umanità», tuona Paolo Pezzati, policy advisor OXFAM per le emergenze umanitarie.

Ma lo Yemen è solo una piccola e remota parte del mondo in guerra. Non ci sono sufficienti interessi economici, forze occidentali con cui schierarsi, o grandi flussi migratori che portino il problema da questa parte del mondo, perché la fine a cui va incontro il suo popolo ci interessi.

Crediamo di poterci ritenere assolti, ma dovremo renderne conto, un giorno o l’altro. Perché, da quando gli occhi di Amal hanno fatto il giro del mondo, non possiamo più dire di non essere coinvolti. Amal ci ha costretti a guardare, e adesso non possiamo girarci dall’altra parte. Non possiamo restare indifferenti. Perché, nonostante cerchino di non ricordarcelo, nonostante provino ad assopire le nostre coscienze, siamo umani, e abbiamo il dovere di restarlo.