Che cosa resta dopo la faida elettorale?

Di Francesco Paolo Marco Leti – L’ultima campagna elettorale si è caratterizzata per una violenza verbale e fisica che ha tracimato gli argini della normale sfida elettorale. Questi eccessi rischiano di sdoganare comportamenti e atteggiamenti non salutari per la democrazia del Paese, con la trasformazione degli avversari in nemici politici. Il rischio è la fine del compromesso e la paralisi.

A partire dagli anni del secondo dopoguerra, le contese elettorali si sono spesso caratterizzate per la presenza di aggressioni e addirittura di morti. Questi scontri riguardavano quasi esclusivamente le forze che ponevano la propria azione al di fuori dell’alveo parlamentare: si era in presenza, infatti, di scontri fra militanti della sinistra e della destra extraparlamentare o di aggressioni da parte di militanti di queste formazioni verso membri/rappresentanti di forze parlamentari.

In questa logica perversa, non vi è nulla di anomalo: se non si riconosce la funzione del Parlamento quale luogo di compensazione incruenta di interessi diversi o contrapposti, la violenza è una soluzione “potabile”. Anche in questa campagna elettorale, le forze extraparlamentari hanno largamente fatto uso di violenza, come l’articolo di Mario Montalbano ha magistralmente raccontato.

Il problema è che, diversamente dalle campagne elettorali dei decenni scorsi, questa volta, la violenza è entrata a pieno titolo anche fra le forze presenti in Parlamento. Pessima notizia per la nostra democrazia. La violenza di cui stiamo parlando non è, ovviamente, di tipo fisico, ma verbale, non meno grave, giacché parliamo di forze parlamentari. Si è assistito alla trasformazione dei leader politici in una sorta di “capi ultras” dediti ad incitare le proprie truppe e a questo non si è sottratto nessuno: chi in misura maggiore, chi in misura minore, ha provveduto alla demolizione dell’avversario politico.

In periodi di confronto ideologico ben più marcato, era presente, fra le formazioni parlamentari, una sorta di bon-ton che adesso, con confronti ideologici meno marcati, sembra essere svanito. Situazioni nelle quali chiedere cosa si farebbe in auto con la terza carica dello Stato o il bruciarne un fantoccio con le sue fattezze, da parte di rappresentanti di forze politiche parlamentari, è qualcosa che supera di parecchio il limite della critica politica. Anche dare dello scarafaggio ad un avversario politico, offenderne il livello culturale o insinuarne la responsabilità politico-morale di un atto criminale è qualcosa che va oltre il limite della democrazia e, dal punto di vista di chi scrive, anche del buon gusto.

Il problema inficia anche l’efficienza della nostra democrazia parlamentare. Fatte le elezioni e determinatasi una situazione di stallo parlamentare, nella quale nessuna forza politica è in grado di avere la maggioranza, con quale coraggio “i capi ultras” dovranno spiegare, alla propria “curva”, la necessità di fare l’accordo col nemico per dare un governo al paese? Come dire ai propri supporter che il nemico politico, che aveva la faccia come le terga, adesso è un soggetto politico non più da annientare ma con il quale confrontarsi? Ovviamente è impossibile, salvo che qualcuno di questi leader non decida di perdere la faccia.

Il compromesso parlamentare, ben diverso dall’inciucio o dal trasformismo, diventa impossibile. La stranezza è parlarne in questi giorni, nei quali cade l’anniversario del rapimento di uno dei fautori del tentativo, abortito, di compromesso più importante per la Repubblica, non a caso definito “storico”. Al contrario di questo illustre precedente, sembriamo correre verso una sorta di weimarizzazione della politica, dove le estremizzazioni sembrano pagare elettoralmente. Speriamo, soltanto, di riuscire ad evitare la fine della Repubblica di Weimar.