Obama, Trump e Netanyahu: un’evoluzione strategica per una politica comune

Di Adriana Brusca – Al termine del primo anno di mandato del Presidente Donald J. Trump, la linea politica degli Stati Uniti ha subito un notevole mutamento, presentendo molteplici elementi di discontinuità rispetto alla precedente amministrazione Obama.

Tali elementi non contigui, dovuti prioritariamente al diverso panorama assiologico-politico dei due presidenti, appaiono evidenti sia nell’ambito della politica interna – che con Obama sembrava tendere all’implementazione delle politiche sociali – sia sul fronte esterno, nel quale, oltre al già discusso disimpegno di Trump sul piano internazionale, rileva certamente il nuovo modello di alleanze messo in atto dal Presidente degli Stati Uniti che, oltre a consolidare antichi rapporti bilaterali, ha posto le basi per la creazione di nuovi partenariati con alcuni Stati di strategica importanza per gli USA.

Attualmente, nell’ambito delle relazioni esterne degli Stati Uniti, una posizione di privilegio è riservata allo Stato di Israele. Delle origini del legame tre le due potenze si è già ampiamente discusso, portando alla luce le ragioni di un rapporto costante, ma sempre oscillante, modulato dalla discrezionalità delle forze politiche in gioco.

Il rapporto tra USA ed Israele, tuttavia, ad una più accurata analisi, presenta elementi di continuità e di discontinuità: se è vero, infatti, che l’amministrazione Trump ha rafforzato e rinvigorito i rapporti con Tel Aviv sul piano solidaristico, ribadendo più volte il suo sostegno allo Stato di Israele, è altresì vero che, in ambito militare e strategico, anche la presidenza Obama reputava Israele quale fondamentale alleato nel Medio Oriente, arrivando a concludere, con quest’ultimo, dopo dieci mesi di trattative, il più grande accordo avente ad oggetto aiuti militari, dal valore di 38 miliardi di dollari. Tale accordo, tuttavia, si è posto solo al termine di una già consolidata relazione in ambito bellico, che aveva implementato gli aiuti finanziari, nonché garantito supporti militari di avanzata tecnologia per Tel Aviv.

Tra Benyamin Netanyahu e Barack Obama i rapporti sono spesso stati tesi; non di rado si è discusso di una presunta diffidenza tra i due leader, maggiormente aggravata dalla stipula di quello che è stato definito dal Presidente Trump “uno dei accordi più sconvenienti  per gli States”, il patto stipulato con l’Iran, in tema di nucleare, contro il quale si era strenuamente pronunciato il leader israeliano.

Negli otto anni di mandato dell’amministrazione Obama, le relazioni con il Medio Oriente sono state oggetto di riconsiderazione; il consolidamento dei rapporti con lo Stato di Israele e con l’Iran sembra abbia seguito una linea strategica differente, più adeguata ad un repubblicano che ad un democratico, volta a garantire la presenza di un impegno statunitense in quella zona del globo. Tale impegno, tuttavia, non si è spinto fino alla sviluppo di un più diplomatico dialogo tra le autorità palestinesi e quelle israeliane e il conflitto tra le due sovranità è rimasto a lungo nell’ombra, a tutto vantaggio di Israele.

Al termine dell’anno 2016, si discuteva in merito alle campagne elettorali dei candidati alla presidenza USA e dei loro programmi politici; una posizione chiara, concordante ed univoca era stata assunta da Hillary Clinton che, seppur non sostenesse apertamente la linea politica israeliana, aveva più volte ribadito la necessità di mantenere inalterate le relazioni tra i due Paesi. Da Obama alla Clinton, dunque, si sarebbe mantenuta l’impostazione dell’amministrazione uscente: una politica di alleanze in ambito bellico, ma non talmente consolidata da portare alla luce i rapporti pregressi intrattenuti dalle presidenze repubblicane negli anni ’60 e ’70. Nelle politiche di Hillary Clinton, tuttavia, sembrava essere chiara la volontà di porre una soluzione definita al conflitto tra Israele e Palestina, appoggiando l’idea, già sostenuta dalla Nazioni Unite,  propensa alla formazione di due Stati indipendenti e sovrani all’interno dei propri territori.

All’elezione di Donald Trump – che ha posto i riflettori sul già discusso tema della forza strategica dei grandi elettori americani – era già noto l’impegno nazionalistico del nuovo Presidente, portato avanti in campagna elettorale e mantenuto nel suo primo anno di mandato, sfociando, talvolta, in svariati incidenti diplomatici, anche con i Paesi del vecchio continente, primo tra tutti la Germania. Quanto alle relazioni con Israele, in campagna elettorale Trump ha dapprima dichiarato una posizione di neutralità nei confronti della sovranità esercitata da Netanyahu e, solo dopo, ha rivelato la volontà di un appoggio concreto a Tel Aviv; appoggio, questo, che sembrava essere finalizzato ad ottenere il consenso della comunità ebraica negli States, le cui proporzioni erano tali da poter incidere nel risultato finale del processo elettivo.

Il piano politico portato avanti dall’amministrazione Trump, infatti, è stato strutturato sulla base del tentativo di risollevare gli Stati Uniti dopo la crisi del 2008; tale ripresa è stata avviata sia nell’ambito della politica interna – mediante una ridefinizione della politica fiscale rivolta all’imprenditoria – sia nel campo della politica estera, portando al rafforzamento di quelle alleanze strategiche a sostegno dell’egemonia americana.

Nel primo anno di mandato del Presidente Trump, possiamo certamente affermare che le relazioni con Israele hanno subito un notevole miglioramento: scacciato ogni sospetto di diffidenza della precedente amministrazione, the Donald ha dichiarato il suo fermo supporto a Tel Aviv, ammonendo la comunità internazionale contro ogni tentativo di discriminazione avverso lo Stato di Israele. Il disimpegno di Trump all’interno dell’UNESCO, infatti, sembra causato proprio dalle relazioni di ostilità che taluni Stati mantengono con il Presidente Netanyahu che, forte del sostegno degli States, nell’ultima sessione ordinaria dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha tenuto un discorso all’interno del quale ha portato alla luce le conseguenze devastati dell’inattività della comunità internazionale: «Cosa ha fatto questo Organo per rispondere alle minacce che ha subito Israele? Assolutamente nulla. E allora, adesso, altro silenzio!» parole, quelle del Presidente israeliano, alle quali sono seguiti quarantacinque secondi di silenzio assordante nelle aule del Palazzo di Vetro, sito a New York.

Mentre la politica di Obama, come già accennato, sosteneva un’idea affermata dalle Nazioni Unite, in linea con i principi del diritto internazionale, e volta alla creazione di due territori separati, l’amministrazione Trump punta ad una risoluzione interventista, che non rimetta esclusivamente la soluzione della questione alle negoziazioni tra Israele e Palestina – portate avanti secondo tale criterio dal 1993 -, ma che si estenda fino alla possibilità di dirimere il conflitto in via unilaterale, con un appoggio quasi incondizionato a Tel Aviv.

Le problematiche connessa ad una soluzione unilaterale trainata dagli Stati Uniti sono molteplici e sono state oggetto di una dichiarazione rilasciata dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che ha sottolineato l’illegittimità di un intervento di uno Stato terzo all’interno di una questione che dovrebbe essere trattata in via bilaterale tra le due sovranità coinvolte. E’ evidente che, anche se non emerge chiaramente dalle parole di Guterres, tuttavia, un accordo bilaterale, per essere equo, implica che le parti in gioco si riconoscano in una sovranità di eguale forza, caratteristica che non sussiste nel caso di specie e che viene ancor più erosa dal supporto degli States. 

Dallo scorso 20 gennaio 2017 e, dunque, dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, Israele ha rinvigorito la sua politica di colonizzazione in alcuni territori di Gerusalemme e della Cisgiordania, ancora sottoposti al diretto controllo dell’amministrazione internazionale. Tale atteggiamento è stato disincentivato dal Presidente statunitense che si è mostrato contrario alle politiche di colonizzazione, salvo poi porre la questione nel dimenticatoio.

La volontà di trasferire l’ambasciata statunitense presso Israele, da Tel Aviv a Gerusalemme, ha confermato un appoggio americano alla causa israeliana e ha sbaragliato ogni tentativo delle Nazioni Unite di restare imparziali.

Con il clima di tensione attualmente vigente in Iran, la questione siriana ancora lontana da una soluzione reale, l’avanzata dello Stato Islamico, la ormai indiscussa inesistenza di un reale governo in Libano, la crisi in Iraq, l’espansione dell’egemonia cinese attraverso le nuove vie della seta, il rinvigorirsi dei partiti demagogici e del conservatorismo cattolico in Europa, l’incapacità dell’Unione Europa di rivestire il ruolo di attore protagonista nel panorama globale, l’ormai pacifica incardinazione di un governo fantoccio in Somalia, e con l’eredità lasciata dalle primavere arabe, che non sono riuscite a portare una reale ventata di libertà e democrazia nell’Africa Mediterranea, le consolidate alleanze tra Israele e Stati Uniti si rivelano, oggi più che mai, di cruciale importanza al fine di garantire una tutela degli interessi statunitensi in Medio Oriente e di assicurare una stabilità politica e una piena legittimazione internazionale al governo israeliano.


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