Intervista al fotografo: come nasce “Crocevie Di Anime Umane”

Di Ester Di Bona – Maria Tumminia ha 32 anni e frequenta l’Accademia di Belle Arti di Palermo, dove a Marzo prenderà la specialistica in decorazione. Dopo un iniziale percorso scientifico, il tempo e l’esperienza le hanno imposto l’arte come un’esigenza vitale, portandola a concludere i suoi studi inizialmente all’istituto d’arte e, successivamente, all’accademia. Questa propensione verso l’arte e la fotografia, per quanto sempre presente, ha superato numerose difficoltà per uscire allo scoperto a causa di un carattere introverso ed una scarsa autostima, fattori che da due anni a questa parte Maria sta superando brillantemente.

Da quanto tempo ti dedichi alla fotografia? 

«Circa 10 anni. Due anni dopo la mia iscrizione in accademia fui costretta ad acquistare la reflex per una materia, fino a quel momento utilizzavo una semplice compatta. Quando mi sono ritrovata questa novità tra le mani, e seguendo le lezioni, ho cominciato a sperimentare: tempo di scatto, apertura di diaframma, iso. Ho impostato il manuale ed ho cominciato a “giocare”, capendo piano piano i meccanismi della fotografia.

Ma per questa prerogativa caratteriale un po’ introversa non sono mai uscita allo scoperto, non avevo fiducia in me stessa e mi aggrappavo sempre agli “altri” invece di concentrarmi su quello che realmente ero in grado di fare io. Ero molto titubante anche all’idea di partecipare a questo contest di Eco Internazionale, a dir la verità. Vi ringrazio infinitamente per averlo organizzato e di aver dato a tantissime persone, tra cui me, la possibilità di partecipare. Ringrazio anche chi ha votato la mia foto, perché significa che il mio lavoro è stato apprezzato ed è arrivato qualcosa dall’altra parte».

Uscire fuori da una “gabbia mentale” e portare finalmente alla luce la propria arte deve essere stato molto difficile. Cosa ti ha aiutato? 

«Un evento decisivo per la mia vita è stata la performance sperimentale “Sguardi”, organizzata dalla professoressa Arianna Oddo e portato in scena a Palazzo Riso: lì ho dialogato con le mie fotografie, in cui erano presenti sia la mia mano (nello scatto) sia il mio volto (stampato sopra) ed è stato fondamentale vedere gli spettatori emozionarsi con le mie foto e il mio corpo in scena. Questo primo passo nel mettermi in gioco mi ha aperto gli occhi, così ho cercato di acquisire sempre maggiore autoconsapevolezza e un grande aiuto l’ho trovato nella meditazione e nella yoga».

«Ho fatto poi un workshop con Shobha, la figlia di Letizia Battaglia, durante il “Castelloammare World Festival”, un’esperienza davvero molto significativa per me: Shobha mi ha dato tantissimi consigli, sia a livello pratico che teorico, e soprattutto mi ha aiutata a prendere consapevolezza delle mie capacità.

Una volta un mio professore mi disse che per lui avevo una composizione fotografica innata. La fotografia in realtà mi ha sempre accompagnata anche quando non me ne rendevo conto. Tendevo a proiettare tutto verso l’esterno, alle persone, temevo la solitudine, quindi mi aggrappavo spesso agli altri, non curandomi di me stessa e soprattutto di ciò che potevo fare, nonostante ci fosse sempre stata questa propensione verso l’arte. Adesso, rispetto a prima, la mia filosofia è cambiata, e credo che nel momento in cui desideri ardentemente qualcosa, tutto l’universo si mobilita affinché tu possa realizzarlo. Per farlo bisogna ovviamente credere in se stessi.

Anche il contest, è stato un mettersi in gioco. Essendo autodidatta, eccetto dei corsi in accademia ed il workshop con Shobha, io non ho seguito una scuola effettiva o qualcuno che mi spiegasse tecnicamente cos’è la fotografia, ho imparato tutto da autodidatta. Devi essere consapevole di ciò che sei, di quanto vali, ma devi anche avere un riscontro negli altri per capire che ciò che fai ha un senso oppure no».

Com’è nata la foto “Crocevia di anime Umane”?

«Non volevo andare nei miei archivi e prendere una fotografia scattata in passato. Appena letto il tema “Una, nessuna, centomila culture” ho chiaramente avuto tantissime idee per la testa. Penso che lo scatto deve essere fatto propositamente per il tema, se partecipi con una fotografia che hai scattato in precedenza non è detto che tu abbia la stessa visione dell’idea contestualizzata in quel momento. Poi è chiaramente soggettivo.

Stavo passeggiando per Piazza Verdi, mi sono fermata e ho pensato “questa piazza secondo me ha una storia infinita” ed effettivamente se ci pensi, in questa piazza, in ogni momento della giornata, passano un sacco di persone che vivono a loro volta una storia diversa. Quindi mi sono piazzata davanti il Teatro Massimo, cercando però di prenderlo un po’ di scorcio, ed ho aspettato. Avevo un teleobiettivo, quindi potevo prendere le distanze e la gente non era in grado di notarmi subito, e in quel momento i miei occhi erano uno specchio che dovevano restituire le sensazioni che provavo in quel momento. Guardavo il mirino e vedevo, attimo dopo attimo, la foto prender vita, come un dipinto in continuo movimento. E nel momento in cui c’erano delle figure interessanti che passavano nella mia visione, scattavo. Scattavo e cercavo di mettere a fuoco delle persone che rappresentavano una cultura ben definita: ciò che ho messo a fuoco per me era “Una Cultura”. Col tempo di scatto invece ho reso la gente in movimento sfocandone il volto, il non riconoscerne il viso lo rende quasi come se non avesse identità: questo per me era il modo perfetto di rendere il “nessuna cultura”. E pensando al “centomila” basta semplicemente guardarsi intorno per vedere l’infinità di storie che ci circondano».

Qual è il tuo rapporto con la fotografia?

«Per me fotografare è uguale a vivere. Come dice Bresson “una fotografia devi mettere nella stessa mira mente, occhio e cuore”, quindi parte dagli occhi, ti emoziona, arriva al cuore e la traduci con la mente, ed è un processo che avviene in un millesimo di secondo. Mi capita spesso, quando cammino per strada, di chiudere gli occhi e scattare mentalmente una fotografia, perché vorrei conservare quell’immagine dentro di me. In quel momento io stessa sono una macchina fotografica, e mi piace, quando scatto le foto, raccogliere le immagini come quando passeggio e chiudo gli occhi.  Come dice anche Adams, nella fotografia riprendi solo il momento, dentro inserisci ciò che hai letto, le immagini che hai visto, che hai ascoltato, che hai vissuto: c’è tanto passato in una istantanea».

E con le tue fotografie?

«Fotografo qualasiasi cosa e mi piace molto farlo. So però che in questo momento ho ancora tanto da imparare. La cosa che mi importa di più nelle foto che scatto è riuscire a dare un’emozione a chi la guarda. Se riesco in questo, sono soddisfatta. Non cerco il successo, a me importa riuscire a dare una visione diversa delle cose che riesca a suscitare delle emozioni nelle persone.

L’essere umano è comunque quello che nello scatto riesce a soddisfarmi di più. Anche la natura mi piace molto, e rilascia delle bellissime sensazioni, ma l’uomo mi intriga come pochi soggetti. Ma come ho già detto prima, solo recentemente ho deciso di mostrare ciò che vedevo o provavo. È un lungo percorso che ho iniziato e sto ancora intraprendendo, con me stessa, con gli altri. Prendere consapevolezza di chi sono e quanto valgo, così anche da poter apprezzare meglio il mondo esterno e chi ti circonda. Bisogna avere anche un po’ di faccia tosta in questo settore. Non abbiate paura di mostrarvi e, soprattutto, credete in voi stessi. È fondamentale sia per l’arte che per la vita».


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