Con l’approvazione del biotestamento non si celebra il “regno della morte”

Sul finire di questa legislatura, la legge al centro del dibattito pubblico nazionale è la neoapprovata normativa sul biotestamento (o testamento biologico). Arenato da troppi anni, e chiacchierato a singhiozzo per il clamore di alcuni casi singoli, il testamento biologico è d’un tratto tornato alla ribalta giorni prima del passaggio positivo al Senato.

È importante entrare nel merito della questione: oltre le motivazioni elettorali, di che scontro si tratta? Il diritto di decidere della propria vita o il dovere di combattere una morte “troppo facilitata” ?

La legge in questione possiede un significato sia politico che simbolico, trattandosi di una materia estremamente complessa e di difficile comprensione: la vita (e la morte) il mistero per eccellenza. Si tratta di una legge divisiva, partendo dalle dispute infinite su “che diritto abbiamo di uccidere” arrivando alle regole più spigolose che riguardano la posizione civile e penale del medico, parte integrante di questo processo di cambiamento legislativo.

Nel contenuto generale della legge sono presenti aspetti già consolidati: il consenso del paziente per quanto riguarda i trattamenti sanitari; il riconoscimento che un cittadino maggiorenne malato abbia razionale comprensione e possa volontariamente gestire una cura; l’obbligo per i medici di fornire una corretta informazione sulle condizioni e le conseguenze, sia positive che negative, di una terapia, senza costringere il paziente a portare avanti una soluzione piuttosto che un’altra.

È stata affermata la non responsabilità civile e penale di un medico quando questo rispetta la volontà del paziente di non curarsi e lasciarsi morire. Pur combattendo insieme il male, il medico aiuta il paziente fino a quando questo aiuto ha una conseguenza sull’esistenza di questo e, come già succede nella normale prassi, evitando il vano prolungamento delle sofferenze. Naturale che nel momento in cui il medico esce di scena come combattente al fianco del malato, entra in gioco la burocrazia – bada bene, non l’abbandono – di un diritto esplicitato e il dovere di un “professionista della vita” (e quindi anche della morte).

Così come un malato cosciente decide modalità e condizioni per affrontare una malattia, la possibilità di demandare ad altri la gestione di questa in una situazione di impossibilità è di grande importanza. Scaricare la responsabilità, coscienti di essere incapaci di intendere e volere in un momento chiave della propria esistenza – momento in cui si potrebbe diventare il peso per quella di un’altra persona, un proprio caro, o lo Stato stesso – risulta condivisibile se non ci si presta a visioni antropologiche che dipingono un’umanità maledetta e destinata a un cieco proceduralismo senza pietà.

Il DAT, dichiarazione fatta davanti al notaio, pubblico ufficiale o consegnata direttamente alla strutture sanitaria, ha chiare implicazioni coercitive molto rilevanti su altre persone, che si tratti di familiari o di medici. Coloro siano i destinatari di questa responsabilità ceduta decideranno sulla vita e la morte sulla base di una volontà scritta. Appare anche questa una procedura così fredda e insensibile nei confronti del tema dei temi, la vita, appunto. Ma quante sono le azioni di interesse emotivo ed esistenziale che vengono compiute con l’ausilio della “dea procedura” che sottopongono ad obblighi di natura morale? Una su tutte, il matrimonio – o il suo opposto, il divorzio.

Sfatiamo il mito che i “puristi della vita” perseguono: l’individualismo estremizzato, di cui si teme la diffusione con l’approvazione della legge sul biotestamento, non si imporrà sugli altri come dittatura della procedura sulla morale (quale morale?). Un testamento biologico può e deve saper obbligare in quanto ultima volontà, se non in vita, in consapevolezza di questa e delle conseguenze sugli altri, senza omicidi volontari di mezzo, senza colpe e soprattutto senza pretese di onnipotenza soggettiva. E per quanto misteriosa sia la vita, non è necessario lasciarla ancora più al buio di quanto sia, in questa volontà pseudo-oscurantista del diritto a decidere sulla propria vita. La morte fa paura, sempre e da sempre; non è una scusa per rendere idioti alcuni e assassini altri.

Daniele Monteleone

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