Trump e i vicini di casa Messico e Canada: il NAFTA, il big wall e le altre storie

I rapporti degli Stati Uniti con i due confinanti stanno vivendo un momento di stallo su diversi fronti. Messico e Canada, insieme agli Usa, sono i paesi firmatari del trattato NAFTA (North American Free Trade Agreement) e in questi mesi si stanno affrontando le faticose trattative di rinegoziazione sulle quali si stanno facendo ben pochi progressi. Inevitabile è anche l’intreccio tra gli accordi economici, lo spostamento di merci e persone, e dunque la gestione dei confini e della sicurezza. Su quest’ultimo tema si è recentemente espresso il presidente americano Donald Trump, sulla scia del terribile attacco terroristico del 24 novembre alla moschea egiziana, dichiarando il bisogno del muro – quello tra Usa e Messico – e del ban, la legge sulla gestione dell’immigrazione musulmana negli Stati Uniti. Entrambe le operazioni risultano ingolfate.

Per quanto riguarda il NAFTA. Si tratta del capitolo di forte contatto tra i tre paesi del Nord America ed è entrato subito nella discussione politica statunitense dall’elezione di Donald Trump. Da quando è entrato in vigore – nel 1994, integrando e sostituendo di fatto l’FTA, il trattato di libero scambio tra Usa e Canada del 1988 – le economie del Messico e degli Stati Uniti portano avanti azioni in stretta connessione e il Canada ha ampiamente abbandonato la politica fortemente protezionista di oltre trent’anni fa. La rete di scambi, derivata dalla liberalizzazione degli investimenti e dall’abbattimento delle barriere commerciali, ammonta a circa 500 miliardi di dollari. Il NAFTA ha portato effetti di varia natura, dalla rimozione delle rimanenti tariffe doganali tra Usa e Canada, allo spostamento di aziende lungo questo asse nordamericano. Tutto quanto non senza quei “vinti” che subiscono uno svantaggio.

Le trattative (e le minacce) con i vicini del Sud. Il Messico è divenuto il principale fornitore di prodotti agricoli per gli Stati Uniti che in compenso hanno dislocato diverse produzioni del settore tecnologico e automobilistico. Complessivamente, però, gli Stati Uniti importano dal Messico più di quanto esportino. Dopo una campagna elettorale infuocata su questo tema lungo il 2016, le contromisure dell’amministrazione Trump non si sono fatte attendere: dal settembre di quest’anno proseguono le trattative per gli “aggiustamenti” agli articoli del trattato. In questi cinque round di contrattazione, dalla delegazione americana è arrivata la richiesta di innalzamento della percentuale di componentistica americana nella costruzione di automobili e motocicli per far fronte alla crisi del settore che sta registrando cali dell’occupazione nazionale. Gli sconfitti di questi anni, infatti, sono stati proprio gli operai del settore automobilistico. A causa di questa perdita di posti di lavoro – quasi tutti di quella classe media bianca che lo ha eletto – Trump ha fortemente criticato il NAFTA, e potrebbe essere uno dei motivi per cui il Presidente statunitense potrebbe abbandonare il trattato. D’altronde, per questa decisione non servirebbe passare dal Congresso, essendo possibile una scelta unilaterale. Dall’altra parte, il Messico ha beneficiato dell’aumento degli investimenti americani, e non vuole rinunciare alla produzione nel settore automobilistico. Il paese ha però visto tagliati fuori i propri piccoli agricoltori, incapaci di competere con le grandi aziende statunitensi e messicane del settore. Inoltre il numero dei lavoratori nei maquiladoras (gli stabilimenti industriali di proprietà americana) in condizioni disumane al confine con gli Stati Uniti sta aumentando in maniera preoccupante, facendo crescere un allarme sociale che ricorda i tempi delle sommosse zapatiste.

Lo stallo con il Canada. Anche qui i progressi, fino a questo punto, sono stati davvero pochi. L’obiettivo Nafta 2.0 entro la fine dell’anno è irraggiungibile, al punto da spostare la ripresa del negoziato al marzo 2018, ma anche questa indicazione temporale sembra essere senza certezze. Le richieste statunitensi, da qui, sono state rispedite al mittente, in particolar riferimento al settore automobilistico. Se approvato l’auspicato – da parte di Trump – aumento percentuale componentistico a stelle e strisce, si assisterebbe a un probabile tracollo del settore auto in Ontario, una delle più fiorenti regioni canadesi. Secondo buona parte degli analisti (e non solo quelli canadesi) il problema principale è rappresentato dall’approccio statunitense al negoziato. Il presidente americano Donald Trump ha inaugurato la linea dell’intransigenza e i negoziatori non godono dell’autonomia necessaria per ammorbidire le pretese della Casa Bianca. E non è esente da pressioni il “triunviro” canadese. Solamente la scorsa settimana l’ex presidente messicano Vicente Fox ha intimato il primo ministro canadese Justin Trudeau a non «fare il Giuda» e di non schierarsi con Washington, isolando il Messico. A questa affermazione è seguito un comunicato di un portavoce del Ministero degli Affari Esteri canadese che assicurava l’impegno per portare «benefici per tutti i tre i paesi firmatari». Insomma, non una “amorevole” alleanza quella arrivata quasi al suo quattordicesimo anno di vita.

Need the WALL, need the BAN! Questo il motto di Donald Trump che ha accompagnato (e concluso) il messaggio di solidarietà all’Egitto su Twitter dopo il tragico attentato che ha ucciso 300 persone in una moschea. Non è un segreto che il presidente americano voglia risolvere il problema dell’immigrazione messicana negli Stati Uniti attraverso la costruzione del big and beautiful wall – come lo ha definito lo stesso Trump – al confine con il Messico, e combattere il terrorismo con altre impopolari misure come il Muslim Ban, ad oggi mutilato e bloccato dopo i problemi di applicazione verificatisi a inizio di quest’anno. Sul muro tra Stati Uniti e Messico si è dibattuto, anche a distanza, tra i rispettivi leader politici al punto di minacciare il boicottaggio commerciale.

Per tornare al NAFTA, bisogna dire che ha avuto importanti legami con la fuga dei piccoli agricoltori – e dei nuovi disoccupati in generale – verso gli Stati Uniti, sia per cercare lavoro tra gli stabilimenti americani al confine sia per riuscire a inseguire clandestinamente il “sogno americano”. Guardando all’odierno, tali effetti sull’immigrazione messicana si stanno affievolendo, se consideriamo il crollo del numero degli arrestati al confine da parte degli agenti di pattuglia americani: nei primi anni Novanta si registrava una media di mille persone al giorno, mentre quest’anno la media arriva a circa 50 catturati. Non è merito delle fallimentari misure tentate e poi abbandonate negli scorsi anni: probabilmente proprio il crollo occupazionale degli States ha scoraggiato il fenomeno migratorio. Non certo una buona notizia.

La chicca. Se non ci si riesce in politica, si trova l’unità nello sport: Usa, Messico e Canada hanno infatti presentato nella primavera di quest’anno la candidatura per ospitare i Mondiali di Calcio 2026, ricevendo la sola sfida del Marocco per essere paese ospitante dell’evento. Forse questa è l’unica vera buona notizia – al di là di tutte le speculazioni sugli appalti e sugli affari in simili manifestazioni – per questo infelice trio internazionale.

Daniele Monteleone