La Francia ha un problema col velo islamico

La questione del velo islamico in Francia ha radici profonde e riaffiora saltuariamente. I tre emendamenti proposti dal partito Les Républicains ne sono la prova.


Tutto ha avuto inizio nel 1989, il 18 settembre. Tre giovani studentesse di una scuola media di Creil si erano categoricamente rifiutate di spogliarsi dal loro hijab, velo tipicamente femminile che nasconde parte del capo appartenente alla tradizione della religione musulmana. Due mesi più tardi il Consiglio di Stato francese però stabilì che l’hijab fosse perfettamente compatibile con la laicità del Paese, ma da quel momento sarebbero stati gli insegnanti stessi ad avere la piena responsabilità di accettare o rifiutare l’hijab in classe, caso per caso.

Nel 1994 arrivò un altro cambiamento a riguardo, sempre al di fuori dalla libera decisione delle stesse donne musulmane: fu emesso un nuovo memorandum, che prende il nome dell’allora Ministro dell’Istruzione della Francia e che poi divenne Ministro della Giustizia, François Bayrou.

Il Memo François Bayrou decise sulle differenze tra simboli religiosi “discreti” e “ostentati”. I primi potevano essere mostrati all’interno degli edifici scolastici pubblici, gli altri no. Tra questi ultimi, c’era anche l’hijab.

A tale decisione però, rispondono immediatamente le nuove generazioni di donne musulmane, certamente non costrette, ma ribelli. Le studentesse del liceo Saint-Exupéry di Mantes-la-Jolie organizzano una manifestazione e, a gran voce, protestano a favore del diritto di indossare il velo nelle loro aule. A novembre dello stesso anno, ben ventiquattro studentesse vengono sospese dalla stessa scuola superiore e dal liceo Faidherbe di Lille.

Tra il 1994 e il 2003, circa cento studentesse sono state sospese o espulse dalle loro scuole, sia medie che superiori. La loro unica colpa è stata aver indossato l’hijab in classe. Tali esclusioni però sono state annullate dai tribunali francesi, o almeno nella quasi metà dei casi.

Adesso, nell’anno del 2021, la Francia torna a ringhiare contro l’hijab in maniera ancora più estrema ed estremista. Non ci si focalizza soltanto sulle mura scolastiche, bensì sui minori, i luoghi pubblici e i loro genitori. Il partito conservatore Les Républicains ha proposto al Senato tre emendamenti, tre come le parole del loro motto più celebre “Liberté, égalité, fraternité”.

Il primo emendamento vuole vietare di indossare in pubblico qualsiasi simbolo religioso per chiunque abbia meno di diciotto anni. Se nel primo emendamento però non viene nominato alcun vestiario in particolare e quindi nessuna religione specifica, il secondo emendamento della legge attacca un capo d’abbigliamento musulmano, ossia il burkini, il costume da bagno intero che copre tutto il corpo. Le piscine pubbliche potranno avere il potere di vietarlo.

Il terzo emendamento, infine, vieta vistosi simboli religiosi per chi accompagna i propri figli in gita scolastica. Questi tre emendamenti sono già passati dal Senato e se saranno approvati dall’Assemblea Nazionale, diventeranno legge.

Erroneamente si potrebbe pensare, a un primo sguardo, che questa non sia una legge islamofobica costruita ad hoc, in quanto il primo e il secondo non sono correlati a una religione precisa. In un articolo de Il Foglio, pubblicato nel 2019, in cui già veniva descritto il terzo emendamento sopracitato, l’autore Mauro Zanon scrive: «L’indignazione, nonostante l’emendamento riguardi tutti i “simboli religiosi vistosi”, è stata solo islamica: nessun collettivo di mamme cattoliche ha protestato perché dovrà lasciare a casa la propria collanina o il proprio braccialetto con il crocifisso.

Per alcuni osservatori si tratta dell’ennesimo tentativo dell’islam politico di testare la resistenza della società francese all’islamizzazione, di imporre una norma culturale che va contro la laicità, giocando le carte della vittimizzazione e della discriminazione».

Se non comprendiamo il valore che intercorre tra un velo islamico e un accessorio qualsiasi, c’è un problema di ricerca e conoscenza dell’altro. Un gioiello adornato da un pendente come un piccolo crocifisso, già di per sé facoltativo, non ha di certo la stessa valenza storica, sociale, religiosa e antropologica, di un velo islamico. L’hijab è un vero e proprio stile di vita, una scelta ben più meditata.

Soffermando poi la questione sulla laicità, quest’ultima è certamente una conquista del mondo contemporaneo da un punto di vista politico e governativo, di modo che i testi sacri e i dogmi non interferiscano sull’operato istituzionale di un Paese che invece deve attingere dalla morale, dall’etica e dalla giustizia. La laicità però, possiede a sua volta: morale, etica e giustizia. Uno Stato, proprio perché “civilizzato”, deve proteggere anche quelle che sono le minoranze etniche e religiose all’interno dei propri confini. Se non viene utilizzata come strumento e chiave per un’apertura alle diversità, questo sì che è un vero peccato. Questa laicità francese descritta dai tre emendamenti passati al Senato, cancella l’opportunità di arricchirsi e di proteggere i propri cittadini.

Inoltre, se davvero le madri cattoliche sentissero verso i loro bracciali o le loro collane lo stesso sentimento che nutre una madre musulmana verso il proprio velo islamico, sarebbero di certo scese in piazza anche loro a protestare. Sennò tra le due chi sarebbe davvero la madre oppressa?

Infine, il partito Les Républicains crede fermamente che il velo sia un’imposizione sessista nonché l’esempio dell’oppressione delle donne musulmane.

Ma è davvero così? Le varie proteste danno una risposta secca a tale quesito. La nuova generazione di musulmani ha abbondantemente dimostrato di non essere d’accordo con le costrizioni sulla pelle di donne e uomini. La vera oppressione è quella che pensa e parla “al posto di”. Una presunzione sovranista ed etnocentrica che gioca con delle lotte che non le appartengono.